27 ottobre 2012

CARL ROGERS E LE SUA TESTIMONIANZA IN ITALIA


I 35 ANNI DELL’A.I.C.C.E F.
LE RADICI DELLA NOSTRA PROFESSIONE
CARL ROGERS  E LA SUA TESTIMONIANZA IN ITALIA

“Gli individui hanno in se stessi ampie risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé, gli atteggiamenti di base e gli orientamenti comportamentali. Queste risorse possono emergere quando può essere fornito un clima definibile di atteggiamenti psicologici facilitanti”
C.Rogers

Carl Ramson Rogers, è lo psicologo statunitense noto in tutto il mondo per i suoi studi sulla consulenza, sulla pedagogia e sulla psicoterapia all'interno della corrente umanistica della psicologia.
E’ stato il fondatore della terapia non direttiva centrata sul cliente ed i suoi studi si sono concentrati su una teoria della personalità (la psicologia umanistica) secondo la quale l'individuo tende all'autorealizzazione, e struttura il proprio Sé ricercando un accordo tra la valutazione-accettazione dei valori esterni (familiari, sociali…), e quelli propri dell’esigenza di autorealizzazione. Secondo tale approccio, l'accettazione di comportamenti impropri (ovvero incongruenti col sistema di valori rivolti all'autorealizzazione del soggetto) sarebbe causa del disagio che motiva il ricorso alla terapia, la quale ha lo scopo di rivitalizzare le naturali capacità di autoregolazione del cliente.
L’importanza di Rogers nella teoria della Consulenza familiare è insita nella sua fondamentale intuizione di eliminare il concetto di "paziente" dalla relazione d’aiuto, trasformandolo in cliente. Non c'è più quindi la persona che, in maniera del tutto passiva, si affida ad un esperto ma ci sono due persone (terapeuta e cliente) che fanno insieme un percorso di crescita. Tutto ciò comporta la rottura con l'immagine e la funzione tradizionali del terapeuta come esperto dei problemi del cliente. Al contrario, il terapeuta si considera collaboratore e compagno che cresce insieme al cliente in un processo di incontro da persona-a-persona. Questa intuizione lo ha portato ad affermare che  il miglior modo per venire in aiuto ad una persona in difficoltà, non sia quello di dirle cosa fare, quanto piuttosto aiutarla a comprendere la sua situazione, e a gestire il problema assumendo da sola e pienamente la responsabilità delle scelte eventuali. Questa modalità e linguaggio centrato sulla persona. che si avvicinano più all’esperienza colloquiale. sono stati assunti in pieno dalla consulenza familiare che non usa una teoria preconcetta alla quale doversi adattare, alla quale dover corrispondere. Non vi è una verità oggettiva a cui fare riferimento, l'unica verità è il vissuto della persona in difficoltà. Secondo questo pensiero, ogni individuo è l'unico a possedere la chiave di se stesso, ossia la propria consapevolezza di sé e quindi le risposte alle proprie domande e le soluzioni dei propri problemi. In questa ottica il fuoco dell'attenzione è centrato sulla dimensione esistenziale del rapporto che si instaura tra due o più persone. Ed è proprio l'intensità della qualità del rapporto che permette alle persone ed ai gruppi di comunicare efficacemente, svilupparsi, evolversi, risolvere problemi, esprimere al massimo le proprie potenzialità, crescere.

 LA VITA
Nasce in un  quartiere di Chicago da una famiglia molto unita. A 12 anni la sua famiglia si trasferisce in campagna per dedicarsi all'agricoltura e all'allevamento degli animali. Nel 1919 si iscrive alla facoltà di Agraria, che presto abbandona per intraprendere studi di Teologia. Nel 1922 si trasferisce in Cina per alcuni mesi insieme ad un gruppo di studenti americani. L'occasione è la partecipazione ad una conferenza internazionale organizzata dalla Federazione Mondiale degli Studenti Cristiani. Questo soggiorno gli permette di confrontare la cultura occidentale con quella orientale e dà modo di chiarire a se stesso molte scelte della sua vita. Infatti da questo confronto, non appena rientrato negli Stati Uniti, abbandona gli studi religiosi per intraprendere quelli di carattere psicopedagogico.
Nel 1924 si sposa con Helen Elliot, che gli darà due figli: David e Natalie.
Affascinato e stimolato sia dalle teorie di Otto Rank che dalla corrente europea dell'esistenzialismo, Rogers pubblica nel 1939 il suo primo libro: The Clinical Treatment of the Problem Child. Grazie a questa pubblicazione ottiene una cattedra di psicologia clinica in Ohio.
Nel 1942 il suo nuovo libro “Counseling and Psychotherapy” getta le basi della client-centered therapy e del movimento di psicologia umanistica. Trasferitosi a Chicago, sua città natale, nel 1944 fonda il primo Counseling Center all'interno del quale effettua, oltre alla sua modalità di "terapia non direttiva", anche ricerca clinica. Da questa attività deriva, alcuni anni dopo, il libro Client-centered-Therapy ("Terapia centrata sul cliente"), testo fondamentale e manifesto del pensiero di Rogers. In questo libro vengono infatti ampliate tematiche già affrontate in Counseling and Psychotherapy.

Nel 1957 ottiene la cattedra di Psicologia e Psichiatria all'Università del Wisconsin. All'interno del dipartimento di psichiatria Rogers sperimenta la sua "terapia centrata sul cliente" a pazienti psicotici ottenendo ottimi risultati. Nel 1964 lascia l'insegnamento e si dedica alla ricerca e alla divulgazione delle sue teorie. Si trasferisce in California e nel 1969 fonda l'Institute of Peace per lo studio e la risoluzione dei conflitti.
Il 28 gennaio 1987, poco prima di morire, viene candidato per il Premio Nobel per la pace. Muore nel 1987 per un attacco cardiaco, a 85 anni, dopo aver speso gli ultimi anni della sua vita a girare il mondo per spiegare le sue teorie.
ROGERS IN ITALIA
Ed in varie occasioni, in questo suo cammino divulgativo, Rogers è approdato in Italia per parlare della Terapia non direttiva centrata sulla persona, e ha aperto una scuola di formazione sulla terapia non direttiva.
Durante uno dei suoi soggiorni nel nostro paese, nel luglio del 1979, Carl Rogers partecipò ad un convegno organizzato a Roma dall’Istituto di Bioenergetica, che fu frequentatissimo dagli specialisti del settore ed in particolare dai Consulenti familiari. In questo convegno Rogers partecipò ad un workshop in cui tenne in diretta un colloquio con un “cliente improvvisato”. Il colloquio fu registrato su nastro e l’ AICCeF ne ha pubblicato la versione integrale nel Notiziario n.3 del 1980.

Pensiamo di fare una cosa gradita ai lettori, ed un’operazione di cosciente ricognizione delle nostre radici, ripubblicando il colloquio integrale di Rogers con una partecipante al convegno che si offrì di sottoporsi alla “simulata” con un personaggio tanto rilevante. Riportiamo la testimonianza dell’allora redattrice del Notiziario AICCeF, Graziella Frera, presente all’evento, che così descrisse l’incontro:
< Il colloquio fu preceduto da poche frasi di premessa di Rogers che rivelano la sua perplessità nella riuscita di questo colloquio, che temeva si risolvesse in una ‘conversazione’ qualsiasi. Fu appassionante, invece assistere al fatto che questa conversazione divenne un vero ‘colloquio terapeutico’, grazie al livello del terapeuta e all’abbandono che visse con lui la “cliente”. Una ‘volontaria, peraltro, molto scettica su quel tipo di colloquio, che riserbò una sorpresa a Rogers, come vedremo durante la conversazione. L’empatia fu potente. La cliente era emozionata, come pure il terapeuta. La voce rotta e le lacrime che apparvero, però,  si possono solo immaginare…>


TRASCRIZIONE DEL COLLOQUIO DI CARL ROGERS SVOLTOSI A ROCCA DI PAPA, ROMA, NEL LUGLIO 1979

Il colloquio si svolse in un ampia sala, gremita di gente, e l’anziano maestro manifestò perplessità circa la riuscita e l’autenticità della conversazione  (una simulata diremo oggi). Il colloquio, in inglese, fu registrato e poi trascritto e tradotto in italiano. Molte testate specialistiche lo pubblicarono, tra cui il nostro notiziario.
Nel testo con R.  viene indicato Rogers che parla, con C. la cliente. Tra parentesi vi sono descritte delle azioni o delle note di redazione per precisare alcuni termini o  parole.
Rileggere questo significativo brano di un colloquio tenuto direttamente dal maestro  della Terapia centrata sul cliente, estemporaneo e brillante esempio di tecnica relazionale non direttiva ed empatica, ha fatto molta impressione in chi vi scrive. Leggendo lentamente queste righe sembra di essere lì, alla presenza di questo anziano studioso, seduto di fronte ad un donna, leggermente a disagio, mentre il colloquio si srotola davanti a noi. E subito perde le caratteristiche di una conversazione per divenire una consulenza.
Cari lettori, se avete impressioni, emozioni, stati d’animo che vi suscitano le parole che seguono, non esitate a scriverci e a condividerle con noi, perché le pubblicheremo..



IL COLLOQUIO DI CARL ROGERS

R. Vorrei precisare che il cliente m è praticamente sconosciuto e non l'ho mai incontrato prima di questo gruppo di lavoro. Mi ricordo che nel corso di una seduta stava parlando di qualche problema ed io le ho domandato se voleva fare da cliente in questa intervista. Lei ha detto di sì, che sarebbe stata la cliente; da quel momento abbiano parlato per tre o quattro minuti, perciò io non la conosco e, ad ogni modo, provo in anticipo il piacere di conoscerla meglio quest’oggi.
E’ un rischio per me, per il cliente e per voi; può darsi che diventi solamente una conversazione ordinaria, oppure che vada maggiormente in profondità; non c'è nessuna garanzia. Penso che ci organizzeremo in questo modo: avremo una mezz’ora di colloquio, poi ci penseremo su per alcuni momenti; quindi credo che il cliente ed io avremo da commentare la nostra esperienza durante il colloquio e probabilmente potremo avere una piccola discussione tra di noi su quanto e successo.
Non ci sarà spazio per le domande degli spettatori; sono sicuro che ci saranno centinaia di persone che vorranno domandare delle cose; tuttavia è meglio che le domande le poniate a voi stessi.
Dopo questo colloquio devo andare via. Quello che vi invito a fare è che voi vi dividiate in gruppetti di due o tre persone e discutiate del significato che per voi ha avuto la partecipazione a questo colloquio; dal momento che io penso che i significati siano tanti quanti sono i partecipanti al gruppo di lavoro. E la miglior risposta alle vostre domande è la risposta che voi darete a voi stessi. Penso che ciò sia pressoché tutto ciò che vi debbo dire. Naturalmente dovremo superare l‘artificiosità della situazione: c’è tutto un uditorio e questa scatola (il registratore a nastro, ndr) dietro la quale bisogna star seduti. II cliente è meglio che sieda dove sono seduto io adesso.. La sistemazione non è certamente perfetta, ma passati i primi minuti spero che si riesca veramente ad arrivare ad uno scambio tra due persone. Ora cominciamo.
(rivolto alla cliente)
Puoi sedere dove vuoi, come preferisci, vicino o lontano da me, come ti sta bene,
Vorrei avere alcuni minuti per concentrarmi, stare tranquillo ed essere rilassato.
Non so di che cosa mi vuoi parlare, ma sarò lieto di ascoltarti.
C.  Ho pensato moltissimo al problema che potrei, esporre oggi, e durante questo processo ho cominciato a rendermi conto di quanto fossi spaventata dalla natura non strutturata di questo colloquio. Penso che preferirei tenermi questa paura oppure preferirei essere con chiunque piuttosto che con Carl Rogers e mi devo chiedere perché è più facile per me affrontare un problema e non ho difficoltà a parlare: sono abituata a parlare e per me questo è un modo di controllare la situazione. Penso che sia il tuo approccio, non direttivo a spaventarmi parecchio.
R. Sembra che la paura di non sapere dove ciò ti possa portare ti dia fastidio e che la direzione in cui ti muovi non sia ben certa, ti sembra piuttosto traumatizzante.
C.  Sì è proprio così; io vorrei che tu mi guidassi e mi facessi un sacco di domande; ma non voglio chiederti di fare tutto questo lavoro; preferirei essere la volontaria per una sedu­ta di ipnotismo che per te. Mi potresti dire Qualcosa su questo mio non essere attiva nel modo in cui probabilmente do­vrei essere con tè?            
R.  Certamente si può dire qualcosa in proposito: puoi avere la preoccupazione di iniziare qualcosa da sola.
C.  Sì, è una cosa molto contraddittoria perché, se si guarda alla mia vita da osservatore esterno, il fatto forse più appariscente è la mia indipendenza e la mia iniziativa e qui c’è una bella contraddizione: in profondità però io sono molto spaventata da ciò che non è strutturato, quando queste vengo­no imposte.            .
R.  Come fai a capire che quando hai a che fare col mondo ester­no non hai nessuna difficoltà a prendere iniziative ed orga­nizzare delle cose, ma quando si tratta di rivelare qualcosa di te stessa allora la cosa ti spaventa molto di più?
C.  Sì, dovrei dirti, ed anche alle persone che sono qui, che io sono una terapista del comportamento ....,
R. … ah, non lo sapevo!             .
C.  Non lo sapevi ... ed io preferisco lavorare con una guida; perciò l’essere venuta qua è un esperimento per me ed io mi sento a disagio, con questo aspetto non direttivo sia dì que­sto gruppo di lavoro che di questo colloquio: ecco, questo per chiarire un po’ il problema.
R.  E’ un rischio, quindi, proprio per definizione.
C. .Sì, è un vero e proprio rischio. Dovrei forse dirti qualcosa della mia vita, non so ...? Può darsi che ciò significhi imporre una struttura, ma penso che possa essere importante. Io sono molto arrabbiata di come la mia vita si è risolta, mi sembra di essere stata fregata in qualche modo. Ho studiato in una "graduate school" (scuola di specializzazione post laurea, ndr), pur provenendo da una famiglia povera, mi sono data un'educazione da sola e sono la sola della mia famiglia ad avere una laurea e, finalmente, ho fatto ciò che desideravo, professionalmente. Siccome sono anche una donna ho conosciuto il tipo di marito che volevo ed anzi ho scelto il più bello, il più intelligente ed il più interessante uomo che potessi trovare all'età di 22 anni e mi sono sistemata per la mia strada, in modo che ogni cosa sembrava funzionasse bene. Poi il matrimonio è fallito quando avevo 32 anni ed allora ho dovuto strutturare la mia vita personale, mentre la vita professionale continua ad andare avanti assai bene. La mia vita personale è stata molto difficile e sento di essere stata fregata in qualche modo e che questo non doveva succe­dere a me. Ho dovuto allevare due bambini e mettermi in una diversa relazione e dover essere di supporto per me stessa, per i miei bambini ed inoltre per tutte le mie attività.
R.  Comprendo ciò che vuoi dire coll’essere stata "fregata" e il fatto che hai dovuto strutturare la tua vita; hai usato parole come ricreare la vita, costruire la vita: pensi che ciò abbia qualche significato!
C.  Quella sensazione di essere perduta, senza una struttura e, voglio dire, una famiglia, un marito, qualcuno a cui ritornare tutte le sere dopo il lavoro, qualcuno cioè che sia lì vicino, per me.
R. E questo senso di essere sperduta c'è, anche solo a pensarci, vero?
C.  Sì è vero. Così io penso di dover strutturare questo collo­quio e tanto per cominciare mi sento a disagio solamente a starmene seduta e lasciare che le cose accadano: perché quando ho lasciato che le cose accadessero non è poi andata così bene.                       .
R.  Così anche questo colloquio rientra in quel tuo "sentirti sperduta".
C.  Sì, mi. sono sentita molto smarrita nella mia vita ed anche  qui.
R.  E la stessa sensazione c'è un pò anche in questo colloquio.
C.  Comunque mi sento meno smarrita qui di quanto non capiti nella vita, forse perché vi ritrovo qualcosa del mio ambiente professionale ... (pausa)... mi sembra che tu stia aspettando che io dica qualcosa; sono imbarazzata dal silenzio.
R.  Non c’è nessun problema e sono perfettamente disposto ad aspettare fino a quando non ti sentirai di dire ciò che vuoi dire.
C.  E solo molto difficile, ho molto caldo e le mie guance stanno bruciando, non sono sicura di sapere ciò che voglio dire.
R.  Chissà se anche in questo momento stai provando un senso di smarrimento che ti fa pensare: "che caspita stiamo facendo?”
C.  Sì sì, e vero. 0.K.  Di solito sono abbastanza brava a usare le parole ed ora non so cosa dire. Ho cominciato bene ma non so dove andrò a finire adesso.
R.  Dopo aver detto "ciao" ed aver raccontato qualcosa sulla tua vita, dove sei andata a finire..!?
C.  Sto aspettando che qualcuno mi venga in aiuto, a sollevarmi, fa parte forse dell’essere donna. Ho la sensazione di dover divertire ed anche che ci si debba prender cura di me. Non so veramente cosa fare dopo introduzione e sento che non posso solamente "essere".
R.  E questo è il punto. Vorresti essere divertente o essere qualcos’altro, ma forse è impossibile per te solo "essere".
C.  Continuo a trovare difficile starmene qui seduta in silenzio tranquillamente.
(pausa)
R.  Mi sembra di sentire nei tuoi occhi un invito del tipo: per favore guidami, fai qualcosa.
C.  Fai qualcosa sì!
R.  Fai qualcosa, sì!
C.  Penso di essere stata in difficoltà con te in questo gruppo di lavoro perché le mie sensazioni nei tuoi confronti sono contrastanti. Mi sono chiesta come tu potessi startene semplicemente lì seduto e lasciare che le cose andassero avanti ed anche nei tuoi riguardi ci sono molte, cose che potrebbero accadere; io vorrei semplicemente che accadesse qualcosa: ero molto arrabbiata con te nel vedere quante persone erano a disagio per non avere un punto di riferimento sicuro e se io fossi stata un pò più attiva avrei espresso questa mia rabbia. Non l’ho fatto e penso che anche il gruppo abbia fatto così. Mi è molto difficile essere arrabbiata con qualcuno che siede lì e vuole che le cose siano belle e vadano bene; e poi mi è difficile essere arrabbiata con qualcuno che è gentile con me e cerca di mettersi in contatto con me: così penso di avere delle difficoltà con te.
R.  Ti sei arrabbiata con me nel gruppo ma non lo hai espresso e tuttavia c’erano queste sensazioni.
C.  Sì.
R.  Ed eri molto arrabbiata con me: "perché non guardi le cose che succedono? perché non ascolti? perché non fai qualcosa?".
C.  Sì, fa qualcosa, fa qualcosa. Non far stare la gente in ansia.      (sospiro)
R.  Perché lasci che la gente sia in ansia? perché mi lasci stare in ansia?
C.  Sì, perché mi lasci stare in ansia? perché non mi fai delle domande? Questa è la contraddizione che provo nei tuoi confronti. Tuttavia mi piacerebbe approfittarne: cioè io ci sono, tu ci sei, e questo e il modo, ed io ho delle difficoltà anche ad esprimere la rabbia e non servirà a nulla e nulla cambierà. Nulla cambierà.
R.  Ti senti senza speranza perché non puoi cambiare il tipo di rapporto!?
C.  Sì è così. Io posso urlare e sbraitare ma tu non cambieresti.
R.  Non hai provato....
C.  No. Non sono arrabbiata per il gruppo di lavoro. Sono venute tante persone perché era stato organizzato un gruppo di lavoro come questo e ci sono molte persone con dei problemi e tu ora sei sensibile a me, ma non puoi essere sensibile a 150 persone e ciò mi fa star male ancora di più. Ci dovrebbe essere qualche struttura. Probabilmente le mie difficoltà con te mi fanno pensare ai miei problemi con mio padre, che non era una persona sensibile, mentre con tè i problemi sono di diverso tipo, perché tu accetti qualunque scelta io abbia fatto. Mio padre invece non sente, o meglio, il suo modo di sentire è disapprovazione, cioè "non mi piace quello che stai facendo".
R.  Il problema di rapportarti a me come con tuo padre o con gli altri è dovuto al fatto che non sono disposti ad accettarti?
C.  Sì, questo è imbarazzante, molto imbarazzante.
R.  Ciò rende difficile trovare il modo di cominciare con me.
C.  Sì è vero, è proprio vero. L’uomo che amo è uno molto strutturato e ciò mi fa arrabbiare spesso, perché continua a stabilire delle redole: lui si arrabbia con me ed io con lui, ed è bello perchè lottiamo e questo per me è nuovo e mi piace poter provare questa rabbia, perchè è molto diversa da quella che provavo con mio padre. Ho delle difficolta con te, invece, molte difficoltà.
R.  Non so come tu mi voglia trattare. Vuoi essere in collera con me o cosa?        (pausa)
Un punto mi sembra di cogliere: è che quando parli delle differenze che vi sono tra il rapporto con tuo padre e questo rapporto mi è sembrato di sentirmi davvero in comunicazione con te.
C.  Penso, è vero, che sono confusa, che quindi non rispondo bene alla tua parte ed allo stesso modo non rispondevo a mio padre il quale ha un atteggiamento giudicante e negativo ed io non credo di essere diventata come lui avrebbe voluto.
R.  E ciò significa per tè che se io non rispondo tu pensi che ti stia giudicando oppure disapprovandoti, proprio come faceva tuo padre.
C.  Beh, razionalmente mi dico che non è così ed ho visto che è diverso e che è diverso il tuo stile di rispondermi, tuttavia mi sento a disagio perché tu non rispondi e non riesco a trovare il modo di essere con te.
R.  Hai in qualche modo la sensazione che io non sia in sintonia con te?!
C.  No. Assolutamente non è così. Sento che sei presente, che partecipi con la tua sensibilità, vedo le lacrime nei tuoi occhi. Semplicemente non sono abituata ad un uomo così sensibile: mi trovo male con gli uomini sensibili, non sono abituata alla sensibilità.
R.  Sì, questo rende tutto più difficile .....(pausa)
Sarebbe più semplice se io ti giudicassi o disapprovassi..
C.  .... o controllassi
R.  o ti controllassi.. o strutturassi le tue cose mentre il fatto che io sia solo sensibile a quello che tu sei è ancora più duro per te.
C.  E’ vero, ciò mi fa sentire il gusto di qualcosa che è così raro al mondo; è così difficile trovare un uomo sensibile che non voglia qualche cosa; ne ho trovati così pochi, almeno nella mia esperienza, tra la gente che ho conosciuto. Si trova questo "gusto" e poi pero bisogna andar via.
R.  Ti da il gusto di qualcosa che senti "impossibile"; non esiste quella cosa chiamata "uomo sensibile".
C.  Sembra ridicolo, no? Il fatto è che avere una rispondenza diversa da un uomo, diversa da quella che sono abituata ad avere, mi colpisce.
R.  Probabilmente ti sconvolge.
C.  Sì mi sconvolge. C’è la possibilità di diventare molto vicini.
R.  Porse la cosa che ti spaventa e la possibilità di una vera vicinanza     (pausa)   anch'io mi sento così.
C.  Come?
R.  Che c'è la possibilità di essere davvero vicini. (pausa)
C.  E’ proprio di questo che io ho paura!.. Sì, va bene. Si è vicini, si può essere vicini per venti minuti e poi "arrivederci".
R.  Questa è una cosa che ti spaventa, la sensibilità per venti minuti e poi basta ... Ti sembra niente.
C.  Certo ne voglio di più. Il mio "appetito" di questo è maggiore ed io sono davvero insoddisfatta di questa realtà.
R.  Questo e il guaio di provare il gusto di una cosa, che si può essere molto delusi per tutto ciò che c’è fuori nel mondo.
C.  Devo imparare ad accettare ciò che l’esperienza rappresenta per me senza volere di più, evitando di trasformarmi da sola in una persona sofferente e depressa anche quando non è il caso.
R.  Forse potresti accettare ciò che è buono e chi è sensibile senza preoccuparti che, se non durerà per sempre, non è buono. E' qualcosa da desiderare per tè stessa.
C.  Io sto avendo qui una buona esperienza con te, eppure sto piangendo e sono triste e stiamo comunicando insieme. La vicinanza per me è una cosa anche sconvolgente e dolorosa.
R.  Posso sentire questo tuo dolore, mi sento in diretto contatto anch’io.
C.  Certo, si vede, questo mi tocca molto, ed anche la partecipazione della gente in sala. Tuttavia è duro per me affrontare questa esperienza ... lo posso percepire, tuttavia non è sufficiente star seduta qua.
R.  Non e sufficiente oppure ti sembra qualcosa di artificiale? di non reale?
C.  No, non la sento artificiale; io sto avendo un'esperienza molto vera con tè adesso.
R.  Anche per me è reale.
C.  Mi sta venendo il desiderio di fare qualcosa di diverso che starmene semplicemente qui a fare quest’esperienza; cioè star qui seduta e sentirmi vicino a tè mi crea un desiderio impellente di muovermi o di fare qualcosa di diverso proprio perché mi sento così a disagio a starmene seduta a chiacchierare. Posso incontrare qualcuno e sentirmi vicina a lui, ma il mio corpo sente il desiderio di correre o di fare qualcosa di diverso.
R.  Fammi capire: e difficile stare seduta qui, mentre il tuo corpo vuole essere da un'altra parte, oppure vorresti semplicemente essere un pò più attiva?
C.  ... più attiva.
R.  Essere più attiva. Fai qualcosa se vuoi.
C.  No, no. Sono stanca di stare qua seduta è vero, ma ciò è abbastanza stupido perché ci sono altri che sono stanchi di star seduti qua.
R.  Ma tu devi parlare di ciò che riguarda te.
C.  Sì, sì, io parlo di ciò che riguarda me, ma è quello che penso. Sì, ma per quanto tempo staremo, qui seduti, mentre vorrei fare qualcos’altro? Penso di sentire una certa iperattività emotiva che e qualcosa come un mio vecchio amico...
R.  ... iperattività emotiva...?!
C.  Iperattività emotiva.
R.  E’ un vecchio amico per te ...
C.  E un vecchio amico.
R.  Un tuo vecchio amico ...!?!
C.  Sì, un mio vecchio amico.
R.  Perché sei seduta qua da molto tempo?!...
C.  Sì, divento sempre più ansiosa. - Oh mio Dio, devo fare qualcosa - e questo vale a qualunque livello. Mi piacerebbe che tu mi insegnassi come si possa starsene semplicemente lì seduti ed “essere". Io non posso semplicemente starmene lì a provare qualcosa, senza pensare che devo, devo fare qualcosa. Non riesco, non riesco, non riesco, e una cosa che mi mette in agitazione.
R.  Ci ho messo molto tempo per apprendere quello che ho appreso e tuttavia non ho. ancora imparato molto nemmeno ora.
C.  Mio padre mi ha insegnato molto poco, ho imparato molto poco da lui ad eccezione di un certo stile naturalmente, ma, voglio dire, molto poco delle cose con cui sono a contatto; mi piace la capacità di stare lì tranquillo ed io non so proprio come fare, perciò insegnamelo.
R.  Tu vuoi che ti insegni ...
C.  ... sì, più direttamente; ad esempio dammi una serie di regole di comportanento..,
R.  ... delle condizioni.
C.  No, non delle condizioni.
R.  Vorrei darti qualcosa che ti sia d’aiuto più duraturo di qualche regola.
C.  Tu puoi startene qui e fare questo mentre io ho delle difficoltà ed il tuo stile d'apprendimento vuole che io stia seduta qui ed abbia delle difficolta e continui a dire che voglio più aiuto: cioè io sono impaziente, impaziente. Non mi piace lottare con me stessa.
R.  Vorresti che ci fossero più regole che ti impedissero di avere troppo spazio .... !
C.  Tutto ciò che imparo, tutto ciò che ho imparato, io l'ho insegnato a me stessa ed ora devo insegnare a me stessa cose che riguardano il mio corpo, cioè le emozioni che provo riferite al mio corpo e me le insegno mentre studio e lavoro con i pazienti.
R.  Avrai certamente avuto molte difficoltà ad insegnare a tè stessa tutte queste cose su tante diverse emozioni.
(pausa)
C.  Sono molto arrabbiata con tutto il mondo perché non mi ha dato più aiuto in questo senso.
R.  Probabilmente è una delle cose in cui ti senti tradita. "Perché il mondo non mi ha aiutata ad imparare le cose che avevo bisogno di imparare?".
C.  Ed in un certo senso, anche ora con te, con le tue tecniche, mi pare che sia di nuovo la stessa cosa, un soffrire da sola.
R.  E’ un esempio, questo, del tuo modo di vivere, questo soffrire, soffrire per imparare. Quello che tu percepisci non è un mondo simpatico,
C.  Sarebbe diverso sperimentare la simpatia, anzi forse la parola giusta è empatia. Io non so veramente molto su di te, e non ho letto molto i tuoi libri, solo dei sommari; ma mi pare che tu capisca di più sul dolore, sulla lotta solitaria che io ho fatto. Penso che sia così.
R.  Sì, probabilmente anch'io so che cosa significa la lotta e la sofferenza solitaria.
C.  Sì, ne sono certa. E’ interessante che quando ho saputo la prima volta della terapia del comportamento, fui molto interessata perché lavoravo in un ospedale in mezzo a tutte queste persone che stavano impazzendo ed ero molto interessata alle tecniche di rilassamento, poiché erano da preferirsi ai medicinali, ma non c’era nessuno che me le potesse insegnare. In una stanza avevamo delle registrazioni ed ero molto fiera di dover imparare tutto da sola.  Ma improvvisamente mi accorgo che tu sei qualcosa di più di una semplice persona, che tu rappresenti un vero e proprio movimento.
R.  Vedi quindi qualche elemento nuovo qui ...
C.  Sì, ti vedo come uno differente. Mi sento molto più vicina a te di qualche minuto fa, dopo aver diviso con te ansie e lacrime. Ti vedo come una persona che deve fare una dura lotta da solo, nel tuo lavoro, senza nessuno che ti dica cosa fare.
R.  Apprezzo ciò che tu mi dici ... Il tempo sta pensando. Stiamo seduti un paio di minuti a pensare a quello che è 'successo e se tu vuoi rendere partecipi i nostri amici in sala di ciò che ti è accaduto io poi farò lo stesso, se ciò va bene per tè.
C.  Sì, va bene.
(pausa – intervallo di qualche minuto)
R.  Devi voltare il nastro? lo collego. Non si sente? Voltalo di nuovo. .Ah ecco, il pulsante  Come al solito io ho più fiducia nelle persone che nelle macchine.
 Mi piacerebbe dire qualche cosa delle mie reazioni a questo colloquio e poi spero che anche Tracy (il nome della ‘cliente’) abbia voglia di renderci partecipi delle sue reazioni. Dopo pochi minuti, uno o due, in verità mi sono trovato completamente isolato dall’uditorio.  Mi pare di aver voluto davvero cercare di capire il vero significato di ciò che la turbava ed essa può dire se ci sono riuscito o meno; ma, quanto meno, la mia vera intenzione è stata quella di cercare di capire a fondo ciò che alcune parole significano per lei. Sono rimasto molto soddisfatto dal fatto che lei si è sentita sufficientemente aperta da dirmi quanto fosse arrabbiata con me, perché ciò ha posto la nostra relazione su di una base reale e ciò l’ho molto apprezzato. Non credo di volergliene se si sentiva arrabbiata con me perché si aspettava, o desiderava, qualcosa di totalmente diverso. Ammetto .che è sembrato alquanto difficile, per me, dalle mie posizioni, cercare di essere anche dalla sua parte; non ho cercato di vivere questa lotta, ma semplicemente ho cercato di ascoltare qualunque tipo di lotta si potesse svolgere dentro di lei: mi ha davvero dato fastidio quando, qua e là, ho avuto l’impressione di sospingerla verso la lotta senza darle nessun aiuto.
Ciò che invece stavo cercando di fare -non so con quanto successo- era di essere davvero un compagno per lei durante la sua ricerca, cercando di andare lontano esattamente quanto lei voleva e nella direzione in cui lei intendeva andare. In qualunque direzione avesse voluto muoversi sarebbe andato bene per me. Ho avuto la sensazione di aver toccato alcune parti della sua vita che sono reali, piene di significato. Per me é stato un buon inizio. C’è un tipo di cosa che non ho sentito, una cosa che a volte sento quando lavoro per dei clienti un pò più a lungo; e cioé alcune volte sento qualche cosa di molto impulsivo che non so da dove venga, oppure qualche cosa che ho bisogno di dire e che non ha alcuna relazione con la situazione del momento ma io la dico e risulta essere molto utile. Non ho avuto questo tipo di esperienza e penso che molto sia dovuto al fatto che era un esperienza nella quale cominciavamo appena ad avvicinarci. Io penso di avere ancora qualche cosa da dire ma vorrei dare a te la parola, se vuoi.
C.  C’è una cosa. Anch'io non mi sono più resa conto della presenza dell'uditorio. Ho avuto l’impressione che si stesse appena incominciando, mi è sembrato che fossero passati cinque minuti e non mezz'ora. Ero molto frastornata prima del colloquio, pensando a tutte le varie cose e ai problemi che avrei potuto tirar fuori e sarebbe stato molto facile arrivarmene con un problema. Ho deciso di non fare così, anche se era più difficile trattare l’argomento delle strutture, che è realmente il grande problema della mia vita. Io faccio resistenza alle strutture e sento con molta foga una gran voglia di indipendenza, mentre nello stesso tempo mi comporto come una che ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei. Penso che questo sia davvero l’argomento maggiore. Trattare di strutture durante un colloquio di terapia non direttiva è per me una cosa nuova ed io forse ho bisogno di una terapia più attiva.
Un altro argomento che a mio avviso è molto rivelatore è il fatto che io non riesco a starmene semplicemente lì seduta, ma devo fare qualcosa, devo darmi da fare per avere l'attenzione della gente, devo fare insomma tante cose per sentirmi in contatto con gli altri. Ad ogni modo si può essere coscienti ad un certo livello e non ad un altro. Ho avuto la netta sensazione di essere in grado di conoscerti come persona e solo verso la fine c'è stata l’enfasi di dire: "Ho Cari Rogers qui davanti, che è uno famoso", e questa è una cosa importante per chiunque, specialmente per una che desidera essere più aperta o di essere strutturata in modo più aperto. Inoltre mi sto accorgendo di non avere avuto una relazione affettiva, tipo matrimonio, da nove anni, e ciò significa che non sono poi così sicura di volere questo tipo di progettazione. Ciò è molto difficile da accettare per me, penso che ve ne siate resi conto. Penso che la cosa che mi ha creato maggiore difficoltà sia rendersi conto di essere qui seduti senza poter dire nulla. Nel gruppo di lavoro ero seduta molto distante da te, nel gruppo grande, e non ho avuto mai la possibilità di vedere che tu probabilmente stavi provando molto dolore. Qui, invece, stando seduta vicino a te ho potuto vedere i tuoi occhi, il tuo corpo ed il tuo viso ed ho potuto avvertire la tua partecipazione più di guanto non fossi riuscita a fare nel gruppo grande. Ho dovuto realmente accettare il fatto della presenza di qualcuno, cioè di qualcuno che è davvero presente e cerca di capire qualcosa di me. in contrapposizione cioè a chi allunga semplicemente una   mano per toccare ed indicare le cose che sono sbagliate. Questa è stata una sensazione molto reale che ho davvero provato. Devo inoltre dire che non mi sono mai accorta della presenza di un uditorio fino a quando non mi sono voltata indietro.  Adesso sì, avrei ancora voglia di andare avanti! Grazie!
R.  Come ti ho già detto prima di cominciare il colloquio, noi possiamo continuare il dialogo, se tu lo desideri, fino a quando sono qui. Ho sentito molto acutamente quella che mi sembra essere una lotta tra il tuo desiderio di portare avanti le cose a modo tuo e nello stesso tempo avere qualche volta qualcun altro che organizzi le cose per te, e sembra che queste due tendenze vadano in conflitto molto spesso.
C.  Sì, sì.  II ribelle che vuole essere sgridato.... Questo è esattamente il tipo di relazione che ho con un uomo di scienza che è molto a posto, molto strutturato. Io sono  in conflitto con questa persona, ed anche se è uno che conosco da diciassette anni, ciononostante continuo a ribellarmi ancora testardamente.
R.  Una cosa che hai detto mi ha molto toccato:  è che tu sei stata molto cosciente della mia presenza ed io mi sono accorto che non so come essere presente ad un gruppo di lavoro molto numeroso, quando comincia ad andare in crisi. Quando le persone cominciano ad ascoltarsi le une con le altre, allora so come  essere presente, ma quando vengono fuori le crisi ed i problemi, allora io soffro esattamente come tutti gli altri. Sono presente cioè nella misura in cui soffro e non saprei trovare nessun altro modo di essere presente. Credo di poter comprendere i tuoi sentimenti circa tutti i problemi che si stavano  sviluppando, ma penso che l’unica cosa che si può dire è che questo lavoro è stato molto reale ed ha aperto un paio di piccole porte, attraverso le quali gettare un sguardo ed è stato appena un assaggio di ciò che avrebbe potuto diventare.
C.  Sì, sì, grazie per avermi-dato questa possibilità.
R.  Grazie per essere stata disponibile. O.K. C'è altro che desideri dire?
C,  No, va bene così.
R.  E’ interessante che i buoni propositi generano altri buoni propositi. Non ho usato tanti Kleenex quanti pensavo (è lo strumento dei terapisti, nessun terapeuta può andare avanti senza Kleenex).  Non ho nient'altro da dire ad eccezione del fatto che spero che il lavoro fatto insieme abbia qualche significato anche per gli altri. In un senso molto profondo non voglio sapere che cosa ha significato per gli altri, poiché ha già avuto un significato  per me al momento e se poi ha avuto un significato anche per loro, allora OK, bene!  Se no, OK lo stesso. Sono sicuro che i presenti hanno molte motivazioni da confrontare, domande da fare, empatia da provare ed abbia mille modi e reazioni. Spero che abbiano la possibilità di scambiarsi reciprocamente le rispettive sensazioni.  Così, che ne sia valsa la pena o no,  penso che il nostro contatto sia finito a questo punto. Grazie!
* * * * *


BIBLIOGRAFIA

Rogers, C. R. (2000) La terapia centrata sul cliente, Firenze, Psycho
Rogers, C. R. (1983) Un modo di essere, Firenze, Psycho,
Rogers, C. R. (1976) I gruppi di incontro, Roma, Astrolabio-Ubaldini,
Rogers, C. R.; (1974) Libertà dell'apprendimento, Firenze, Giunti-Barbera
Rogers, C. R.; Kinget, G. M. (1970) Psicoterapia e relazioni umane. Teoria e pratica della terapia non direttiva, Torino, Bollati Boringhieri,
Rogers, C. R. (1971) "Psicoterapia di consultazione", Roma, Astrolabio.

24 aprile 2012

LA NASCITA DELLA RIVISTA "IL CONSULENTE FAMILIARE"


Il 5 febbraio del 1977, presso lo studio del notaio Adolfo Franchi a Bologna, in via Garibaldi 6, viene redatto l’Atto costitutivo dell’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari, che rappresenta l’atto di nascita della nostra Associazione.
Nel precedente numero avevamo preannunciato che il 2012 sarebbe stato un anno di ricorrenze e festeggiamenti. E così infatti abbiamo cominciato a festeggiare il compleanno dell’Associazione durante la Giornata di studio del 29 gennaio, al Clarhotel di Roma. Un caloroso ricordo ai pionieri, soci fondatori dell’AICCeF, che hanno intuito e reso possibile la nascita di questa nostra odierna realtà professionale ed una torta con trentacinque candeline (anzi con due candeline da 35) ha suggellato, a ridosso della ricorrenza del 7 febbraio, il cammino percorso in tutti questi anni dall'Associazione, dai Consulenti familiari e da tutti coloro che sono venuti in contatto o si sono serviti della loro professionalità. Le candeline sono state spente dal Presidente in carica, Rita Roberto, e da due Presidenti onorari, presenti per l’occasione: Luciano Cupia e Gabriella Puzzarini.
A proposito di padre Luciano, dopo che nel precedente numero abbiamo letto le emozioni di Giovanna Bartholini nel rievocare la nascita dell’Associazione in quel 5 febbraio del ’77, vorrei ora condividere con Voi quanto egli ha scritto in un’altra occasione di festeggiamento per l’AICCeF, ma che contiene riflessioni sempre valide e di una straordinaria chiarezza di contenuti.
*****


Intervento di  Luciano Cupia
…”Tutto nasce dall’intuizione di una donna: Giovanna Bartholini. Ed è bello che siano state le donne a far nascere in Italia una figura come il Consulente Familiare. Del resto, anche in altre parti del mondo, questa professione rispecchia con maggiore intensità il ruolo tipicamente femminile dell’accoglienza e della creatività. Grazie quindi a Giovanna e alle tante altre che hanno dato vita all’AICCeF.
Quindi ci sia dato di celebrare con gioia questa ricorrenza, anche da parte di noi uomini, pochi ma seriamente impegnati al raggiungimento del riconoscimento della figura del Consulente Familiare.
Continueremo comunque a credere nel nostro lavoro che, del resto, a livello mondiale ed europeo, è già apprezzato. Non è l’unico, ma certamente è uno dei punti forti che proteggono e sostengono la realtà familiare, nelle sue più svariate componenti. E’ una voce che rassicura chi ancora crede nell’amore.
Il Consulente Familiare si è dimostrato il cultore e l’interlocutore della capacità di relazionare, uno dei presupposti del vivere umano. Di questo siamo orgogliosi. Come professione e come associazione. Per un mondo che, ritrovando buone relazioni, riapprenda la capacità di amare.”


******* 

Come potete constatare i primi passi dell’Associazione sono dedicati ad aggregare persone con una provata esperienza nella consulenza familiare e con una metodologia di lavoro abbastanza omogenea a quella adoperata dai soci fondatori. E piano piano il gruppo dei Consulenti iscritti si è allargato, mentre da subito veniva pubblicato e spedito, su carta ciclostilata, il Notiziario dell’AICCeF, che aveva in prima pagina la dicitura: “il presente notiziario ha circolazione limitata ai Soci dell’Aiccef ed ha valore di circolare informativa sul servizio di consulenza alla famiglia”. Vi scrivevano personaggi di rilievo, dalla Bartholini a Luciano Cupia, dalla Cappelli von Berger a Vittoria Pezzi e a Graziella Frera, recentemente scomparsa, tanto per citarne alcuni, e vi sono stati interventi illustri come quelli di Jean Lemaire, Georges De Rita, Carl Rogers, Sergio Rosso e Don Liggeri.
In quegli anni l’Associazione si occupava di definire i criteri e i principi della professione e di ‘formare’ nuovi Consulenti Familiari, impartendo una seria e rigorosa formazione, alla fine della quale potevano essere iscritti nell’Albo professionale. Per la maggior parte operatori che aspiravano a esercitare nei Consultori privati. Era opinione comune, allora, che la collocazione naturale dei Consulenti Familiari fosse, fin dall’inizio, nei consultori. Don Liggeri, il teorizzatore dei Consultori Familiari, usava infatti definire così la struttura consultoriale:
“Possiamo rassomigliare il Consultorio ad un orologio: il Direttore è la molla, gli specialisti le varie rotelle dell’ingranaggio, ma il Consulente è il bilanciere. Assolve, cioè, un compito particolarmente vitale perché il funzionamento di tutto l’ingranaggio sia scorrevole. Preciso, equilibrato, pulsante di vita.”
Col passare del tempo le attività associative aumentano, i soci Consulenti si moltiplicano, la consulenza familiare necessita di differenziazione rispetto alle nuove discipline di counselling e l’informativa del Notiziario interno non basta più. Così, alla fine degli anni ‘80 nasce l’esigenza di uno strumento informativo e formativo per i soci con caratteristiche diverse dal passato, più ampio, più duttile, più approfondito. Ma lasciamo la parola al nostro Direttore responsabile, Maria Chiara Duranti, che ci ha inviato la sua testimonianza sulla nascita della Rivista.





LA NASCITA DELLA RIVISTA
In occasione del 35mo anniversario dell’A.I.C.C.e F. sento il desiderio di rievocare la nascita del nostro giornale e di ricercare per Voi i tempi e modi con cui è stato concepito e come si è sviluppato, partendo da un bollettino ciclostilato di che pagine ad una rivista vera e propria, con un logo e una sua precisa identità. Un logo e un nome che caratterizzano oggi un’Associazione di livello nazionale, simboli che al tempo stesso identificano una professione con regole comuni e accettate dalla grande comunità dei Consulenti familiari. I miei genitori hanno sempre lavorato in consultorio, ed io sin da bambina ne ho sentito parlare ed ho ‘respirato’ la consulenza familiare. Ricordo i passi decisivi che hanno determinato la nascita del giornale, l’arrivo del nuovo logo, l’impegno, la dedizione e la costanza con cui il babbo (Emilio Duranti) e la mamma (Gabriella Puzzarini) hanno lavorato appassionatamente per l’Associazione, dedicandole le loro energie.
Per la cronaca, il Notiziario AICCeF (che dal 1979 veniva spedito ai soci in veste di bollettino associativo) uscì come Rivista trimestrale con il numero 0 dell’ANNO I° e con il nome Il Consulente Familiare nel giugno del 1990, con autorizzazione del Tribunale di Ravenna n.939. Una grande soddisfazione!
La redazione era formata dalla compianta Graziella Frera (a cui si deve il grande merito di aver trovato l’editore Boccassi che ha collaborato intensamente per la realizzazione della rivista) e da Vittoria Pezzi, il direttore responsabile era Emilio Duranti, mio padre, che ha mantenuto l’incarico fino alla sua scomparsa. Si trattava, e si tratta, del primo strumento scientifico e metodologico dei Consulenti Familiari, considerato dall’Ordine dei Giornalisti come strumento di lavoro per professionisti.
In quel numero si dava conto del cambiamento in atto nell’organo d’informazione dell’Associazione, che stava assumendo una nuova veste e una nuova dignità letteraria; della Giornata di studio di Verona del 25 marzo 1990 su “Teorie e tecniche adleriane al servizio dell’attività consultoriale”; del percorso parlamentare del progetto di legge sulla tutela della maternità e vi era anche un articolo di Giovanna Bartholini sull’ascolto dal titolo “Chi ci guida il cammino”.
Invece il numero 1 Anno 1° del Consulente Familiare uscì nel trimestre ottobre-novembre1990, e venne pubblicato all’indomani dell’assemblea dei Soci dell’AICCeF, che aveva sancito il rinnovo delle cariche elettive, con un’intensa giornata di studio condotta dal dott. Gabriele Paragona, proprio sull’importanza della comunicazione. La lettera della redazione (scritta da mio padre) si apriva con la seguente motivazione: ”Oggi l’AICCeF intende uscire dalla sua riservatezza, presentandosi a tutti coloro che lavorano nella consulenza familiare, invitandoli a partecipare ed a condividere le ricerche e gli studi sulla problematica familiare e sulle metodologie di intervento consultoriale, che l’Associazione da anni elabora”.
Obiettivo del giornale era, quindi, uscire da un ambito ristretto per avere una larga diffusione e proporre un’ampia divulgazione, per diventare uno strumento attivo di formazione e di comunicazione tra tutti coloro che lavoravano all’interno dei consultori familiari. Ma centrale in questa fase era anche il nuovo concetto di “Consulente familiare” maturato in quegli anni dopo l’approvazione della legge per l’istituzione dei consultori familiari nel 1975 (n.405/75), ben spiegato da un’accorata lettera di Giovanna Bartholini, la quale si sofferma sull’importanza e sul ruolo del Consulente familiare alla stregua degli altri Paesi Europei, in cui questo operatore aveva una rilevanza riconosciuta. La Bartholini, in particolare si sofferma anche sul ruolo fondamentale avuto dal prof. Sergio Cammelli, che insisteva su una struttura associativa “in grado di rispondere ai problemi psicologici e sociali della famiglia, che sono ben più complessi e sfumati di quelli puramente sanitari o solo assistenziali”, laddove la problematica doveva ruotare intorno alla coppia e alla sua assistenza psicologica”. Da queste premesse, la necessità di stringersi attorno ad un’Associazione supportata da una metodologia comune e condivisa da tutti i consulenti d’Italia con la necessità di difendere e diffondere una professionalità acquisita.
Per la storia, l’AICCeF nacque a Bologna il 5 febbraio del 1977 su iniziativa del citato prof. Cammelli con un primo gruppo di soci fondatori con l’obiettivo di affermare la figura del consulente familiare, attraverso due direttrici parallele: quella della formazione degli operatori dei consultori pubblici e privati e quella della promozione e formazione di questo speciale professionista, attraverso seminari e congressi.
Infine, arriviamo al logo, nato per iniziativa di mia madre Gabriella, che all’epoca insegnava all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna e chiese ai suoi alunni di disegnare un logo rappresentativo di un’Associazione di Consulenti Familiari. Non tutti sanno che un ragazzino di, allora, 16 anni Enrico Benedetti (ora affermato pittore) disegnò il simbolo attuale che compare sulla copertina del nostro giornale. Si tratta di una conchiglia ad otto punte che voleva simboleggiare “il cammino in divenire della sua vita e nello stesso tempo la conchiglia con cui si ascolta il rumore del mare”. Interessante a questo proposito, le riflessioni fatte da Rita Roberto che, studiando il logo con l’intenzione di scoprire i collegamenti con l’Associazione, ha trovato nella simbologia più profonda del disegno i “segni” e i legami con l’arte dell’ascolto, caratteristica precipua del Consulente familiare (cfr. “Il Consulente Familiare” num. 3 del 2005: Storia di un logo,n.d.r.).
Infine, che dire? la mamma è stata consulente e presidente dell’AICCeF per tre mandati, mentre il babbo era il direttore responsabile del giornale e direttore del consultorio di Ravenna. Poi il segretario dell’associazione, il dott. Giovanni Pezzi con la moglie Vittoria, insieme a Graziella Frera erano gli infaticabili responsabili della redazione ed il motore della ricerca e dell’approfondimento professionale. Tutti nomi, persone che hanno dato il cuore e il loro tempo per un ideale.
Un team formidabile per il successo della Rivista e per la sua longeva ed autorevole esistenza!
di Mariachiara Duranti
Direttore responsabile de “Il Consulente Familiare”.




11 gennaio 2012


...il 5 febbraio del 1977, presso lo studio del notaio Adolfo Franchi a Bologna, in via Garibaldi 6, viene redatto l’Atto costitutivo dell’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari, che rappresenta l’atto di nascita della nostra Associazione.
Dopo 35 anni di attività, rileggere quell’Atto Costitutivo voluto e creato da tante mani e tante teste, esperte nel campo della consulenza familiare (l’edizione integrale dell’Atto costitutivo è stato pubblicato nel numero 3, pag.14, del 2010 de “Il Consulente Familiare”), ci da la piena la sensazione che esso è sempre attuale e moderno per la validità dei suoi contenuti e l’attualità dei suoi scopi.
In questo 2012, in cui festeggeremo questo importante compleanno (35 anni e non li dimostra!), ripercorreremo le tappe più importanti e significative della nascita e della attività dell’Associazione sino ad oggi, a cominciare dalla sua origine e dai primi passi che fece nella mente dei suoi ideatori e fondatori.
Quest’anno, che sarà decisivo per la regolamentazione delle professioni e in cui probabilmente saranno riconosciute per Decreto le Associazioni professionali in regola con la legge 206 del 2007 (come ha promesso il nuovo Ministro della Giustizia), la Rivista lo dedicherà, in tuti i numeri,  a ripercorrere il nostro passato, con le testimonianze dei “nostri” grandi, ed a tracciare il nostro futuro, con le proposizioni, l’impegno e la determinazione di “noi” tutti.
Per iniziare abbiamo cercato in archivio l’articolo che Giovanna Bartholini, socia fondatrice e prima Presidente dell’AICCeF, scrisse in occasione dei venticinque anni di attività dell’Associazione. In quest’articolo la storica Presidente (scomparsa il 21 marzo 2010, vedi il num.3 del 2010), descrive gli entusiasmi, i timori, le perplessità e le aspirazioni che hanno spinto i fondatori a creare l’AICCeF.

NOZZE D’ARGENTO  PER UN IDEALE
 Intervento di Giovanna Bartholini
Chi sono gli sposi? L’Ideale e l’A.I.C.C.eF. e come ogni anniversario degno di questo nome, i “ti ricordi?” si sprecano. “Ti ricordIi?” quello sparuto stuolo di consulenti radunati in primis (fu infatti il primo incerto passo) dal prof. Sergio Cammelli a Bologna?. “Ti ricordi?” l’entusiasmo di aderire all’idea di Cammelli di fondare un’associazione di persone che facessero il nostro lavoro?  Ma eravamo proprio quattro gatti, bisognava cercarne altri prima di poterci chiamare associazione.  Il primo interrogativo era: esistevano in Europa altre associazioni simili ? Ci sembrava di no. Esistevano federazioni di consultori, ove lavoravano persone come noi, desiderose di portare un aiuto, possibilmente con una metodologia univoca negli intenti e nell’etica, anche se non uguali per tutti.   Ma associazioni nazionali no, non ne esistevano.
“Ti ricordi” i primi problemi ? :
1.   darci un nome “ti ricordi?“ Fu un problema e alla fine decidemmo per A.I.C.C.e F.  Ognuna delle lettere esprimeva un nostro sentire:
·                                                                                    associazione: perché tale eravamo (anche se ancora non avevamo messo nero su bianco davanti a un notaio);
·                                                                                    italiana: proprio perché non si confondesse con altre eventuali estere;
·                                                                           C. C. e  F.: Consulenti Coniugali e Familiari. Le ultime quattro lettere sembravano uscite da cervelli esaltati, ma non troppo.
Cammelli ebbe molto da ridire su queste ultime lettere: gli dava fastidio quella  “e”  piccolina che, diceva lui, “ non faceva sigla“. Concluse “ beh, se piace a voi!”… e lasciò perdere.
2. stendere uno statuto.
Lo statuto fu una cosa più complicata: c’era sempre qualcosa che a qualcuno non andava bene; comunque furono preziosi i contributi degli amici Alice Calori e Giancarlo Marcone; e a questo punto il mio pensiero va con tenerezza agli amici scomparsi in questi anni, ma allora così fervidi e “credenti” in questa associazione.   
E ricordo il prof. Sergio Cammelli (l’ideatore), don Paolo Liggeri (compiaciuto, ma sempre con uno dei suoi sorrisetti benevolmente ironici), l’amica Anna Giambruno, che sempre si rimetteva alle decisioni degli altri (pur avendo una esperienza come consulente che ciascuno di noi avrebbe voluto già possedere) e l’avvocato Roberto Lino al quale non andava mai bene niente, perché doveva sempre trovare un cavillo legale ad ogni nostra parola.
E così partimmo tutti su un treno che non si sapeva che direzione avrebbe preso. Passarono i primi mesi del 1977, si elessero il Consiglio Direttivo e il Presidente. (il primo fu proprio Giovanna Bartholini, da allora diventata una istituzione per l’ AICCeF - nota di redazione).
E gli spuntini, a casa mia, così allegri e così intimi, ad ogni riunione del Consiglio Direttivo. Il grosso era ormai fatto:  Nome, Statuto, Consiglio Direttivo e Presidente. Ma…. si trattava di ingrossare le file e trovare dei soci, e lì cominciarono le difficoltà.
Avevamo deciso che dell’AICCeF dovessero far parte solo membri con una provata esperienza e con una metodologia di lavoro abbastanza simile. Sembrò essere di aiuto in quel momento il primo libro della Bartholini “IL CONSULENTE DI COPPIA”. E, a proposito di metodologie di lavoro, un gruppetto, forse i più presuntuosi, ed io per prima, ci accingemmo, dopo qualche anno, a fare “formazione” di altri eventuali consulenti, con la “promessa” che, se fossero stati ritenuti abili in un colloquio finale con una commissione esaminatrice severissima, avrebbero potuto entrare come soci nell’ Associazione.   Allora era un premio!
E anche oggi lo è, perché l’AICCeF, in 25 anni, è diventata non solo importante, unica e unico crogiuolo di formazione di nuovi operatori, ma è anche temuta, proprio per la serietà professionale di ognuno dei Soci, che sono ormai tanti, invidiata e tale da dare molto fastidio ad alcuni che vorrebbero avere operatori preparati come i nostri e prospettive costruttive come quelle che noi abbiamo.
A questo punto la lista dei “ti ricordi?“ è terminata, ma potrebbe continuare con la storia e la voce dei Presidenti che si sono succeduti, fino all’attuale prezioso Luciano Cupia, con gli impegni presi, con i programmi che bollono in pentola. Grazie, grazie, grazie a tutti quelli che oggi lavorano. Io sto in disparte, ormai troppo avanti negli anni per partecipare emotivamente ad ogni successo. E un grazie particolare a questa nostra Rivista, che ci porta e ci fa seriamente conoscere nel mondo. Per ovvi motivi non vedrò le nozze d’oro di questa creatura, con il suo Ideale, che mi auguro resti puro, immutato e coraggioso come lo è stato fin qui.
G.B.